Cosa hanno scritto su Chi ha ucciso mio padre

Nello spazio «grande e vuoto» del Teatro delle Passioni di Modena, dove lo spettacolo ha debuttato lo scorso 21 febbraio in prima italiana all’interno di Vie Festival, Francesco Alberici è un’ombra scura che si muove tra sacchi della spazzatura, già in scena quando il pubblico entra in sala. Quando inizia a parlare si rivolge al grande assente, il padre («Tu appartieni a quella categoria di uomini a cui la politica riserva una morte precoce»), si fa narratore della storia («Il figlio cerca di rivolgersi a suo padre») e, in alcuni momenti, nei gesti diventa il padre (quando prende a pugni il muro o quando si accascia tra i sacchi della spazzatura e rotola a terra, rifiuto tra i rifiuti, o quando indossa berretto, sciarpa e piumino trasformandosi nello spazzino «per 700 euro al mese», lavoro fatto dal padre dopo l’incidente in fabbrica).

Marì Alberione, Duels, 26 febbraio 2020

 

In una performance difficile, Alberici è riuscito a farsi ombra, facendo suo il testo di Louis, astraendo la figura individuale e trasformando la sua parabola in una storia collettiva e in un grido di ribellione sociale contro una classe politica, sia di destra sia di sinistra, che ha abbandonato ormai da tempo i principi di uguaglianza e giustizia con cui si è riempita la bocca e che ha spacciato per democrazia.

Giulia Alonzo, Exibart, 27 febbraio 2020

 

…l’interpretazione è quella di Francesco Alberici, unico protagonista, matura, sincera, mai banalmente emotiva (e può benissimo fare a meno dell’amplificazione del microfono): vestito in jeans e una felpa nera, Alberici indaga la rabbia e l’amore del personaggio, ne scova le trappole emotive e gli slancio affettivi, è capace di trovare un piano di verità, e poi di umanità e dolore in quel fitto ragionare da figlio omosessuale che ripercorre dall’infanzia il rapporto col padre omofobo e incazzato.

Anna Bandettini, La Repubblica, 27 febbraio 2020

 

Deflorian e Tagliarini riescono a raggiungere il punto di fusione drammaturgico in un montaggio che tiene lo spettatore aggrappato al filo dell’attenzione. C’è un crescendo scevro di enfasi e retorica nel quale le vicende biografiche più difficili si alternano alla riflessione socio-politica, fino all’accusa finale: vero e proprio atto di guerra, una mitragliata di nomi che non può non far pensare a quel Io so di Pasolini, che qui però si concretizza nei nomi dei ministri e dei presidenti della Repubblica francesi degli ultimi decenni.

Andrea Pocosgnich, Teatro e Critica, 3 marzo 2020

 

Una riscrittura che non cambia la scrittura. Se, ad esempio, sul finale del libro padre e figlio convengono intorno alla parola rivoluzione – «ci vorrebbe proprio una bella rivoluzione» afferma il padre plaudendo all’impegno politico del figlio –, giungendo ad una conclusione perentoria e programmatica, la scena sfuma più dolcemente. Una radio spenta continua a trasmettere il suo segnale, Alberici l’afferra, spaesato. Alza lo sguardo verso il pubblico. È una musica dolce, ma non ci tranquillizza. Come sempre nelle pause, nell’indecisione, nella giusta distanza fra un corpo e la platea, Deflorian\Tagliarini immettono una voragine. Misurano, e ci fanno misurare come vertigine, il nostro dolore.

Andrea Zangari, PAC PaneAcquaCulture, 5 marzo 2020

 

È la prima volta che Daria Deflorian e Antonio Tagliarini affrontano un testo non scritto da loro e per di più affidandolo a un altro attore, ma la coerenza del percorso che stanno portando avanti è lampante, non solo perché Alberici da quattro anni collabora con loro come autore, regista e attore, ma soprattutto per le questioni che ritornano e si affinano e si arricchiscono un’opera dopo l’altra: il rapporto tra figura e sfondo, la dialettica tra spirito e politica, la periferia come punto di vista privilegiato, la necessità di uscire dall’esercizio della riscrittura attualizzante e dall’attivismo ideologico che opprime le scene e la creatività, per trovare le parole, le forme, le immagini, le pause giuste per interpretare e raccontare come stiamo, cos’è che nonostante tutti i nostri sforzi ci scaraventa in uno stato di dolore inconsistente e subdolo, in un senso di impotenza e di perpetua apocalisse all’orizzonte. 

Rossella Menna, Doppiozero, 28 febbraio 2020

 

Bellissimo e toccante. Si poteva alludere con maggiore delicatezza, maggior pudore e, insieme, maggiore forza alla separatezza degli emarginati dai dominanti e, per l’appunto, al sogno della rivoluzione che, in quella separatezza, a poco a poco viene destato e alimentato dalla vita che scorre nell’esterno negato dal potere economico e politico agli sfruttati?
Infine, la prova maiuscola fornita da Francesco Alberici: fredda come un referto anatomico e bruciante come una fiamma. Costituisce la sigla migliore per uno spettacolo che, una volta terminato, non ti lascia. Perché ti consegna dei problemi che non puoi fare a meno di affrontare.

Enrico Fiore, Controscena, 24 febbraio 2020

 

Per la prima volta, infatti, i due artisti hanno presentato una creazione di cui firmano soltanto la regia, mentre l’interpretazione è affidata a un giovane attore, il bravissimo Francesco Alberici. E per la prima volta hanno affrontato un testo scritto da altri, dal ventisettenne Edouard Louis, il “caso” letterario francese del momento.

Renato Palazzi, Il sole 24 ore, 8 marzo 2020

 

Lunghe pause sospendono il racconto per lasciare spazio a una dimensione del dolore più sottile muta e impalpabile, ma che affonda con forza tanto nel corpo dell’attore quanto in quello del pubblico, chiamato ad accogliere questa fragile ma tagliente confessione.

Gazzetta di Modena