un progetto di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
liberamente ispirato al film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni
collaborazione alla drammaturgia e aiuto regia Francesco Alberici
con Francesca Cuttica, Daria Deflorian, Monica Piseddu, Benno Steinegger, Antonio Tagliarini
collaborazione al progetto Francesca Cuttica, Monica Piseddu, Benno Steinegger
consulenza artistica Attilio Scarpellini
il testo “Buono a nulla” è di Mark Fisher
luce e spazio Gianni Staropoli
suono Leonardo Cabiddu
musiche dal vivo Domani di Franco Fanigliulo, Niente di speciale e Come la notte di Leonardo Cabiddu e Francesca Cuttica eseguite dalla band Wow
Il brano Il surf della luna è di Giovanni Fusco
costumi Metella Raboni
traduzione e sovratitoli in francese Federica Martucci
direzione tecnica Giulia Pastore
organizzazione e distribuzione Giulia Galzigni / Parallèle
una produzione A.D. / Teatro di Roma – Teatro Nazionale / Teatro Metastasio di Prato /Emilia Romagna Teatro Fondazione
in coproduzione con théâtre Garonne, scène européenne Toulouse / Romaeuropa Festival / Festival d’Automne à Paris / Théâtre de la Bastille – Paris / LuganoInscena LAC / Théâtre de Grütli – Genève / La Filature, Scène nationale – Mulhouse
con il sostegno di Istituto Italiano di Cultura di Parigi, L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, FIT Festival – Lugano
Quasi niente. Oggetto di partenza del nostro nuovo progetto è Il deserto rosso, lo straordinario film del 1964, prima opera a colori di Michelangelo Antonioni, che a partire – sembra – da un breve racconto di Tonino Guerra vede in scena una straziante e fanciullesca Monica Vitti. Giuliana, moglie e madre, attraversa il deserto – in una scena veramente rosso – della sua vita senza che nessuno possa realmente toccarla, senza toccare a sua volta nessuno. Nemmeno l’incontro con Corrado, amico del marito, per tanti versi simile a lei, riesce a cambiare le cose. Poche le parole, alcune talmente belle da diventare proverbiali (“Mi fanno male i capelli”, la più nota, presa in prestito da una poesia di Amelia Rosselli) e protagonista assoluto il paesaggio, una Romagna attorno a Ravenna trasfigurata dal regista (“ho dipinto la realtà” dichiarava all’epoca) in un mondo dove malattia e bellezza coincidono con un cortocircuito di senso e di sensi che ancora oggi ci sbalordisce. Un oggetto ingombrante, visto, discusso e sviscerato.
A differenza di Janina Turek, la protagonista del nostro lavoro del 2012, Reality e delle pensionate greche di Petros Markaris che abbiamo abitato in Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni del 2013, entrambi oggetti di cui pochi o nessuno si era occupato, Il deserto rosso è invece uno delle opere centrali – hanno scritto – non solo del cinema italiano e internazionale, ma delle arti visive del Novecento.
La nostra scelta è quella di essere cinque in scena, tre donne, due uomini. Prima di tutto per evitare il triangolo borghese, moglie-marito-amante, per avere la possibilità di lavorare liberamente attorno alla figura di Giuliana e infine per rispondere alla tensione anti-realistica del film. Infatti, se questa opera ci ha colpito è anche perché il film non è la sua trama, e questo ci corrisponde. Da sempre, nei nostri lavori siamo attratti da figure marginali, dimesse (quelle lucciole fisiche e di pensiero così ben descritte da Georges Didi-Huberman), da sempre ci descriviamo nelle loro cadute e fallimenti. Figure apparentemente lontane dal cinema Antonioni e dalle sue ambientazioni medio borghesi. In realtà, Giuliana fa pienamente parte di questa galleria di persone storte, riuscite a metà. È una ‘selvatica vestita elegante’, a suo modo una Kaspar Hauser. C’è qualcosa in lei che ci parla di una ricerca di verità che spesso, nella nostra sempre maggiore “capacità” di stare al mondo, abbiamo perso. Ci siamo adattati. Accomodati, abbiamo azittito domande come quelle che lei si pone: “Ma cosa vogliono che faccia con i miei occhi? Cosa devo guardare?”. Il nostro vuole essere un lavoro non solo sul disagio, la fragilità, sulle crepe, ma anche sulla fanciullezza di una donna che il mondo non sembra più interessato ad ascoltare.
“C’è qualcosa di terribile nella realtà, e io non so cosa sia. E nessuno me lo dice” dice Giuliana. Il deserto rosso si interroga in maniera personalissima su quel cambiamento epocale che tutti gli artisti del dopoguerra hanno sofferto e raccontato: nel caso di Antonioni si è parlato di alienazione, Pasolini lo chiamava apertamente genocidio culturale.
Quell’alienazione – termine non a caso desueto – ci appartiene talmente tanto che non siamo più in grado di avvertirla.
La cerniera tra dentro e fuori in quest’opera è talmente sottile che non possiamo che essere sollevati dal fatto che il film inizi durante uno sciopero, che lo sfondo sia lo sfruttamento di operai chiamati a sradicarsi dalla loro terra per andare a lavorare all’estero. L’osmosi tra i due livelli del racconto in Antonioni non è né ideologica né risolutiva, ma scava, intreccia, sposta. Siamo di nuovo di fronte al rapporto tra figura e sfondo che abbiamo affrontato ne Il cielo non è un fondale (2016).
Dove siamo ora?
È’ qui che Quasi niente racconta la nostra distanza da Il deserto rosso. Come se fossimo tutti Giuliana e nello stesso tempo nessuno fosse più lei. Più che essere ammalati in quanto individui, lo siamo come società e senza quel margine di immaginazione (“dietro al nostro fantasticare c’è il mondo intero” poteva scrivere Antonioni a Mark Rothko in una lettera) che rende Giuliana la figura più vera, più singolare, più viva del film. Ora siamo in un mondo che sembra aver perfettamente compiuto quella parabola di disagio, rendendola addirittura positiva e insuperabile. Il mondo che un giovane teorico della cultura, Mark Fisher, ha definito del “realismo capitalista”. Un realismo che non è come gli altri: è un realismo integrale, senza porte e senza finestre, che ha preventivamente escluso ogni altra visione del mondo, sussunto ogni passato, ipotecato ogni futuro. Ma è proprio questa la scommessa marginale del teatro: continuare a far intravedere il “mondo intero” dietro un impotente fantasticare e i limiti di “questo mondo” dietro la potenza con cui schiaccia i singoli.
Foto di Claudia Pajewski