Il cielo non è un fondale / 2016

Foto ©Giorgio Termini

uno spettacolo di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini

con Francesco Alberici, Daria Deflorian, Monica Demuru e Antonio Tagliarini
collaborazione al progetto Francesco Alberici e Monica Demuru
testo su Jack London Attilio Scarpellini
musiche Lucio Dalla, Mina, Georg Friedrich Händel, Lucio Battisti
la canzone ‘La domenica’ è di Giovanni Truppi
assistente alla regia Davide Grillo
disegno luci Gianni Staropoli con la collaborazione di Giulia Pastore
costumi Metella Raboni
costruzione delle scene Atelier du Théâtre de Vidy
direzione tecnica Giulia Pastore
accompagnamento e distribuzione internazionale Francesca Corona 
organizzazione e distribuzione Giulia Galzigni / Parallèle

una produzione Sardegna Teatro, Teatro Metastasio di Prato, Emilia Romagna Teatro Fondazione
in coproduzione con A.D., Odéon – Théâtre de l’Europe, Festival d’Automne à Paris, Romaeuropa Festival, Théâtre Vidy-Lausanne, Sao Luiz – Teatro Municipal de Lisboa, Festival Terres de Paroles, théâtre Garonne, scène européenne – Toulouse
con il sostegno di Teatro di Roma
in collaborazione con Laboratori Permanenti/Residenza Sansepolcro, Carrozzerie NOT/Residenza Produttiva Roma, fivizzano27/ nuova script ass. cult. Roma

 

 

I sogni, dice il filosofo George Didi-Huberman, ci lasciano soli. Nella solitudine dei nostri sogni gli altri, come attori su un palcoscenico, sono e non sono sé stessi. Il cielo non è un fondale parte da un sogno che è a sua volta generato da una canzone. E’ lì, tra il buio e il corpo della musica che inizia il vero, paradossale lavoro del teatro: sognare gli altri assieme a loro, in uno spazio scenico vuoto che si ingrandisce e si restringe, come l’architettura, a un tempo contratta e smisurata, della nostra mente. In questo luogo sospeso, Antonio racconta di aver sognato Daria nei panni di una barbona e, pur avendola riconosciuta, di essere passato oltre; quel gesto innesca una ritmica di incontri e di misconoscimenti, di cadute e di incidenti, di parole e di canzoni, scandita da due sentimenti contraddittori: la paura di essere noi stessi l’altro, l’escluso, “l’uomo che mentre tutti sono al riparo resta da solo sotto la pioggia” e il desiderio di metterci, per una volta, al suo posto. Ma come conciliare la compassione e un’obesità dell’io che non resiste alla tentazione di sostituire a ogni storia la propria?

In scena quattro persone slittano continuamente fino alla soglia di figure intraviste che non potranno mai essere dando vita a un atto drammatico “senza trama e senza finale” (come suggeriva Cechov a un giovane autore) che si avventura alla ricerca di chi sono gli altri in noi e di chi siamo noi negli altri. In una metropoli di tutti e di nessuno, che si porta appresso bagliori di Roma, di Milano, di Londra, appaiono e scompaiono le figure di Alom, il venditore di rose che un tempo era un generale nell’esercito del Bangladesh, di Mohamed il cuoco pakistano, della vera barbona incrociata nel giardino del sogno e che assomiglia a Daria, e poco importa se siano ricordi di autentici incontri o fantasmi rimasti impigliati a una fotografia ingiallita scattata nel 1902 ai proletari dell’East End londinese addormentati in un parco. A dar loro una forma è il corpo delle canzoni presenti nello spettacolo, di una soprattutto, La domenica di Giovanni Truppi, che, sciolta nei dialoghi, diventa il simbolo dell’impossibilità di trasformare la vita quotidiana in una mera idealità. Anche perché come dice alla fine la canzone “va a finire sempre che la domenica la gente litiga”.

 

 

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